Mister G./ Luglio 20, 2023/ Diario, Persone

Eccomi qui: Maratona di New York!!

Se me l’avessero detto solo tre anni fa non ci avrei mai creduto: io che non corro neppure per 200metri per andare a prendere l’autobus? Impossibile!!

Mi ricordo ancora com’è iniziato, un po’ per scherzo e un po’ per sfida. Ero disteso sul divano a leggere e tu sei tornata dal lavoro in una di quelle tarde serate di Ottobre quando il sole riesce ancora ad entrare di taglio dalle finestre ed illuminare di arancione le pareti.

Mi hai guardato, hai sorriso e poi hai detto:

“Cavolo Simone, ma ti sei visto quanto sei ingrassato!? Dai esci un po’ dai tuoi libri, da quei bellissimi mondi immaginari. Domani vieni a correre la mattina con me!”

Ti ho guardata sollevando gli occhi dalla cortina di carta che, come sempre, mi difendeva dall’altro mondo, quello non immaginario, e ho boffonchiato “si..si ok” e me ne sono anche dimenticato lì per lì.

Tu no.

“Domani” era sabato e tu, come sempre, ti sei alzata a un’ora che io neppure pensavo che esistesse di mattina…tipo le 6:15.

Sei scesa dal letto con un silenzio di strusci di lenzuola e di passi morbidi sul parquet che mi ricordava un chierichetto alla messa di Natale per la densità dei movimenti e il poco silenzio che, anche nel rumore, resta silenzio.

Poi hai fatto una cosa strana, invece di andare a farti la doccia per svegliarti, sei venuta da me, mi hai baciato la barba ispida della notte e hai detto “dai Simone è ora”.

Non ho capito, ho aperto gli occhi più per stupore che per altro, se avessi davvero capito credo che mi sarei girato dall’altra parte del letto quella mattina…e per sempre. Ma ho aperto gli occhi, ho fatto l’errore…perché quello che ho visto subito non sono stati i tuoi occhi “caramello salato” ma la mia sedia coi vestiti. Su quella sedia non c’era la camicia usata di ieri e i calzini lanciati a caso…ma c’era un paio di pantaloncini, una maglietta tecnica e sotto, come sentinelle in attesa del segnale, due scarpe da corsa. Non so da dove uscissero, ma erano lì.

È stato più quello, quel gesto di amore senza parole, a farmi alzare, a farti amare a tal punto da dirmi che potevo almeno provarci, a farmi sentire amato senza la speranza della risposta da dirmi che una risposta era necessaria. Ed ero io. Eccomi.

La mia prima corsa non me la ricordo…che poi dire “corsa” forse è pure eccessivo no? Nel senso tu correvi già la mezza abitualmente e ti allenavi sui 10km, credo che quel giorno se abbiamo fatto tre volte il giro dell’isolato è stato tanto…e io mi sarei fermato a due e lo sai, ma l’orgoglio mi impediva di dire “basta”…e sapevi anche quello.

Da quel giorno qualcosa è cambiato in me. Non che abbia iniziato ad amare la corsa…questo no, neppure ora che sono qui mi sento di amarla.

Ma ho iniziato ad amarne la sua poetica inutilità: uno corre e torna a casa, corre e non raggiunge un luogo diverso, corre e non fa, durante la corsa, qualcosa di incredibile o vede scenari diversi dal cemento e da grigi palazzi torinesi…correre è fine a se stesso. È in questa solitudine emozionale che trovi le tue emozioni. È in questo silenzio che, scossi dal rinculo dei tuoi passi sull’asfalto, i pensieri più sedimentati dentro, in fondo, si smuovono e vengono a galla. Tu mi avevi detto che correre ti aiutava a capire e capirti. Non sapevo quanto avevi ragione perché non avevo mai imparato a parlarmi.

La corsa mi ha dato il silenzio necessario per ascoltarmi.

Le parole sono venute dopo.

Quindi all’inizio correvo per questo.

E per te. Era un modo per “fare qualcosa insieme” (che brutta espressione), ma era quello che sentivo e volevo darti dopo serate sul divano a trincerarmi dentro un libro.

Poi è diventato un rito: il nostro rito mattutino. Come la brioches alla mandorla per te e vuota per me da Dovra il panettiere albanese sotto casa.

Infine è diventata una necessità…più mia. Testardo come un mulo mi avevi detto “cavolo se corri così tra l’anno potremmo andare alla Maratona di New York”.

E quindi eccomi qui: io e te.

Tra poco si parte.

Ho studiato il percorso un infinità di volte, ma una maratona è una maratona. È come una partita a scacchi con te stesso, i tuoi limiti e le tue fatiche: puoi pensare a tutto, ma non riuscirai mai a pianificare ogni dettaglio, ogni curva, ogni fatica, ogni respiro…puoi solo esserci, un passo dopo l’altro, provarci. Provando a dare scacco matto più a te stesso, più che ad altri.

Eccoci qui…3..2..1…si parte!

L’inizio è sempre quello che mi dà più difficoltà, tu, più leggera, mi corri a fianco senza quasi fatica, io, ben più pesante nonostante tutti gli allenamenti, sono un po’ un mulo che deve riscaldarsi.

All’inizio ci sorpassano in tanti…ma questo non è il punto. Una maratona non la fai per arrivare primo, la fai per esserci, per te stesso, per noi. E quindi sorpassateci pure, noi continuiamo a correre col nostro passo. Insieme.

Dopo in primi chilometri inizio a sciogliermi, il passo si fa morbido e la corsa fluida, prendo un po’ di margine su di te, ma ti sento dietro. Cerco di essere io la guida in questo primo tratto in cui, lo dicono tutti, serve solo il fisico. La maratona si divide in due parti: quella del fisico e quella della testa. La prima parte della maratona si usa il primo: un passo dietro l’altro, senza pensieri, solo quello. Ma è la seconda parte quella più dura, quella in cui il fisico sembra dirti “basta fermiamoci qui, abbiamo fatto abbastanza per oggi” è lì che la testa interviene dicendo il suo sì razionale “l’hai fatto, lo puoi fare”.

E tu continui a correre più per quel sillogismo logico che per altro. 

Il primo tratto è quello fuori Manhattan in cui passi per mille posti diversi e colorati: quartieri italiani, cinesi, giapponesi, etiopi…un caleidoscopio di umanità e di culture che ti riempie gli occhi e il cuore. A ogni ristorante che vedo e in cui vorrei portarti stasera dopo la corsa mi giro e ti guardo indicando l’insegna con gli occhi, tu la guardi con me e accenni un “si”. Nei primi otto chilometri di maratona penso di averti invitato fuori a mangiare per tante di quelle serate che coprirebbero un anno intero, una vita intera.

Il mio corteggiamento silenzioso.

Corriamo immersi nella folla. Non quella che corre con noi, ma quella a fianco. Questa folla è stupenda…è come se ti dicesse “si, sei perfetto così, corri, provaci, vali, se ti fermi non è un problema, daiiii, ti voglio bene, ti amo” dice tutte queste cose insieme, in tutte le lingue insieme, in tutti gli sguardi insieme…questa folla sembri tu. Che ci sei anche ora che sei dietro e non ti vedo, ma ti sento. Serve una folla di due milioni di persone per fare un “tu”. Lucia.

Mentre mi perdevo nei discorsi siamo arrivati al ponte, il famoso ponte che tutti immortalano. È bellissimo essere qui sopra. Non c’è la folla a fianco per sicurezza, ma senti lo stesso le grida che ti raggiungono da una parte all’altra del fiume, il loro incoraggiamento gridato è ancora più fisico di prima, perché ancora più gratuito e innamorato.

E nel rumore della folla sento il tuo respiro un po’ rotto che m segue e va a ritmo col mio, le tue parole di incoraggiamento che dici per te stessa, ma lo so che le dici solo per me, il tuo esserci un passo indietro col fisico e già due chilometri avanti col cuore: so cosa mi stai dicendo, mi prepari per il tratto più duro che verrà dopo questo ponte, sei già lì mentre con me e da qui, con una calma materna cha sa vede il frutto nel seme, mi instilli la fiducia che li mi servirà…a volte mi chiedo come fai, io che non vedo oltre il parapetto di questo ponte eterno.

Scendiamo dal ponte ed eccoci qui, siamo arrivati alla parte più dura lo dicono tutti: sei già stanco dopo 30 chilometri di corsa e non ce la fai più e quello che ti si para davanti è un righello d’asfalto, una lunga retta senza nessuna curva, nessun appiglio visivo su cui misurarsi, su cui porre la propria attenzione per distrarla dalla fatica. Superato questo è tutto in discesa…ma bisogna superarlo.

Mi volto e tu sei lì a fianco a me e sorridi…ma come diamine fai a sorridermi mentre corriamo? E invece si: mi volto a guardati e tu, intuendo che ti sto guardando, ti volti e mi regali un sorriso. Se lo sapessero i giudici credo che mi squalificherebbero perché per me è doping. Il mio doping personale e immateriale, sei come musica.

Lo ammetto: in onestà quando ti guardo non lo faccio per salutarti o per chiederti silenziosamente “come va”, ma lo faccio per vedere se nei tuoi occhi c’è la mia stessa fatica e magari vedere il dubbio di “dai può bastare così”…e invece tu, oltre la fatica, butti un sorriso e dentro quel sorriso un “si”…e io non posso che dirti “si” col corpo che spingo a correre ancora per un chilometro, per un chilometro ancora.

Abbiamo finito il rettilineo, ora dovrebbe essere la parte più semplice, ma, forse avendo dato troppo per scontato che una volta svoltata la strada sarebbe stata una passeggiata, mi blocco. No Lucia, non so se ce la faccio, ok mancano dolo 2 chilometri, ma non credo che questo mio corpo possa fare ancora un altro passo…come fai ad essere così leggera anche dopo 40 chilometri tu? Mi sorpassi ti volti e corri all’indietro…come fai?

Ho detto che la maratona è divisa in due…mi sbagliavo, manca una parte. Dopo il fisico e la testa c’è il cuore.

Quando il fisico non ti sorregge più e anche la testa non trova giustificazioni per quello sforzo, resta solo il cuore. Il cuore e basta, il lasciarsi andare senza pensare a cosa succederà, smettere di pensare, soppesare, ascoltarsi dentro e cercare ragioni fuori…resta il cuore che per me sono quei due occhi di “caramello salato” che sorridono davanti a me e non mi fanno più pensare ad altro. Se non a noi.

Gli ultimi chilometri li faccio in un sogno ubriaco: non sento la folla, non vedo i numeri che segnano l’approssimarsi dell’arrivo, non avverto cosa fanno le gambe sotto il mio cuore, non sento nulla…vado avanti ipnotizzato da un sogno folle e stupendo: io e te all’arrivo che ci baciamo sotto il traguardo e piangiamo di fatica, dove lacrime e sudore si mischiano in un abbraccio impossibile.

Un passo, un passo semplice, banale nella sua normalità, mi fa varcare una riga di pochi centimetri sull’asfalto…eccomi qui sono arrivato. Mi accascio in ginocchio esausto e subito un inserviente viene a mettermi una coperta termica sulle spalle, mi aiuta ad alzarmi e a spostarmi da lì che altri stanno arrivano nel frattempo. Io faccio un po’ di resistenza, nel mio scarso inglese gli dico che voglio aspettare, devo aspettare un attimo che stai arrivando anche tu, eri lì dietro a 5 passi da me e stai arrivando. Mi volto con uno sforzo enorme per me ora e ti cerco nella folla che accorre felice.

Non ti trovo, tra di loro.

L’inserviente mi invita con grazia ad uscire e devo spostare lo sguardo dalla folla per vedere dove mi indica.

In quello gesto alzo lo sguardo e vedo oltre la folla, oltre gli alberi di Central Park, oltre New York…vedo il cielo.

Sei lì, lo so.

E lì ti saluto, ti sorrido come hai fatto tu per 42 chilometri affianco a me.

Lucia, ce l’abbiamo fatta. Insieme.

Foto di Harry Gillen su Unsplash

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